Marco (o Giovanni Marco, come è menzionato non di rado nel Nuovo Testamento) è l’autore del Vangelo più breve, fatto di sole 11.229 parole greche, considerato però dagli studiosi come il più antico e una delle fonti principali a cui hanno attinto soprattutto Matteo e Luca. Della sua vicenda personale abbiamo vari dati, a partire dalla sua famiglia. Era figlio di una cristiana di nome Maria residente a Gerusalemme ed era cugino di uno dei collaboratori più stretti di Paolo, Barnaba.
Anche Marco si era unito all’Apostolo e si era avviato nella prima delle sue missioni evangelizzatrici, ma durante quel viaggio, mentre si trovavano nella città di Perge (nell’attuale Turchia occidentale), egli aveva deciso all’improvviso di rientrare a Gerusalemme. Questo atto indispettì Paolo che si rifiutò di riassumere Marco per la sua seconda missione itinerante: il cugino “Barnaba voleva prendere insieme anche Giovanni, detto Marco, ma Paolo riteneva che non si dovesse prendere uno che si era allontanato da loro e non aveva voluto partecipare alla loro opera. Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro; Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro”.
Il futuro evangelista costituisce, quindi, una sorta di pietra d’inciampo tra Paolo e lo stesso Barnaba. Ma più avanti l’Apostolo si riconciliò con lui, tornò a chiamarlo come collaboratore, invitando i cristiani di Colossi a accoglierlo con affetto come suo rappresentante. A questo punto, però, emerge un altro contatto apostolico importante di Marco, quello con Pietro. Lo troviamo, infatti, con lui a Roma, la “Babilonia” imperiale, come si apprende dalla finale della prima Lettera di Pietro: “Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia, e anche Marco, mio figlio”.
È sulla base di questo collegamento tra il maestro-padre e il discepolo-figlio che quasi certamente Marco divenne evangelista. Infatti, attorno al 130, il vescovo della città di Hierapolis, l’attuale Pamukkale in Turchia (famosa per le sue cascate pietrificate), Papia, citava questa memoria, da lui ricevuta attraverso l’insegnamento di un “presbitero” dell’era apostolica, ossia di un testimone della prima generazione cristiana: “Divenuto interprete di Pietro, Marco scrisse accuratamente tutte quante le cose dette e fatte dal Signore che ricordava, ma non in ordine. Egli non aveva ascoltato il Signore né l’aveva seguito, ma solo aveva accompagnato Pietro”.
La testimonianza è molto interessante per conoscere la via attraverso la quale Marco, che non era stato discepolo diretto di Gesù, aveva potuto elaborare il suo Vangelo. Pietro era, dunque, la sua fonte primaria, come lo erano probabilmente altri documenti che già circolavano in quegli anni (siamo attorno al 65-70): ad esempio, un primo racconto della passione, morte e resurrezione di Cristo, oppure una raccolta di detti del Signore (è quella che dagli studiosi è chiamata “Fonte Q”). Certo è che agli occhi degli esegeti moderni il Vangelo di Marco è tutt’altro che disordinato, come supponeva il vescovo Papia.

Proprio per questo giudizio, per la sua brevità e per il fatto che il testo di Marco fosse stato usato da Matteo come sua fonte(ben 606 dei 666 versetti di Marco si ritrovano – sia pure rielaborati – nello scritto evangelico di Matteo), la tradizione ha accantonato per secoli il Vangelo di Marco preferendogli il più ampio e solenne Matteo, al punto tale che sant’Agostino giungeva a scrivere: “Marco è valletto e compendiatore di Matteo (…) è il più divino degli abbreviatori”.
Si invertiva, così, il rapporto di dipendenza e si cancellava ogni originalità di Marco. In realtà il testo marciano ha una sua creatività narrativa, ha una sua cifra stilistica, offre una sua prospettiva interpretativa della figura di Cristo, pur fondandosi sulla memoria e sulla testimonianza oculare di Pietro. Il suo è uno stile secco, scandito da frasi brevi aperte da un kai, in greco “e”, ma capace di vivacità, tant’è vero che la sua povertà apparente di linguaggio (egli usa un vocabolario di sole 1.345 parole diverse) affascina il lettore moderno, abituato alla immediatezza dello stile giornalistico. Ma è soprattutto l’impostazione generale del racconto, ossia la struttura del Vangelo di Marco, ad attrarre non solo il credente ma anche chi è in ricerca e vuole conoscere il mistero di quest’uomo, Gesù di Nazaret. Infatti Marco conduce per mano il lettore attraverso una sorta di spazio posto in ombra. Sono i primi otto capitoli del suo testo. Gesù sembra nascondersi, cela la natura profonda del suo essere, rifiuta la pubblicità: è quello che gli studiosi hanno definito come “il segreto messianico”. Anche i miracoli – che in Marco, se si esclude il racconto finale della Passione e Pasqua di Cristo, occupano il 47% del Vangelo – vengono compiuti da Gesù in disparte dalla folla. Siamo, quindi, di fronte a un uomo, Gesù, che sollecita domande ma rifiuta risposte semplici e chiarificatrici, troppo sbrigative.

È solo a metà percorso che si ha il primo svelamento: Gesù accetta la definizione che Pietro gli attribuisce: “Tu sei il Cristo”, cioè il Messia. Ma, subito dopo, lo stesso Pietro dimostra di non aver compreso la vera natura di quel messianismo: esso non è politico-nazionalistico, non è trionfale, bensì affidato a una donazione totale di sé. Ed ecco, allora, il cammino finale di Gesù verso Gerusalemme, sino alla vetta del Golgota. Lassù, sarà un pagano, il centurione romano, a proclamare la rivelazione piena del mistero che si cela in Gesù di Nazaret: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!”.
Si era partiti con l’uomo Gesù; a metà strada lo si era riconosciuto come il Messia atteso, il Cristo; alla fine lo si scopre come “Figlio di Dio”, quella realtà profonda che il Padre celeste aveva proclamato proprio quando Gesù al Giordano iniziava la sua missione: “Tu sei il Figlio mio prediletto!”.
La parabola terminale della vita di Marco evangelista ci è nota solo attraverso la tradizione, forse alonata di leggenda. Stando alla Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea (III-IV secolo), Marco fondò la Chiesa di Alessandria, della quale fu il primo vescovo e dove morirà martire. Le sue reliquie sarebbero state traslate a Venezia nel IX secolo, da allora Marco è rimasto inscindibilmente legato alla città lagunare, come attestano la splendida basilica a lui dedicata e lo stupendo ciclo musivo biblico che la copre all’interno per almeno quattromila metri quadri, con una sezione riservata appunto alle storie del santo. Il simbolo a lui assegnato dalla tradizione – sulla base della libera applicazione ai quattro Vangeli di un passo dell’Apocalisse che introduce quattro esseri viventi simbolici – sarà il leone, divenuto popolare anche nella storia dell’arte per indicare l’evangelista.