UNA DIFFICILE DECISIONE PERSONALE.
Hermann Volk, il grande dogmatico di Munster a cui, malgrado la differenza di età, ero legato da amicizia, nell’estate del 1962 divenne vescovo di Magonza. Mi giunse allora la richiesta di occupare la sua cattedra. Amavo la Renania, amavo i miei studenti e il mio lavoro all’università di Bonn; oltre tutto mi sentivo ulteriormente obbligato nei confronti di questo compito in forza del mio legame con il cardinal Frings. Ma il vescovo Volk insistette perché io accettassi; alcuni amici mi esortavano sostenendo che la dogmatica era il mio vero campo e che essa mi avrebbe aperto prospettive d’azione ben più ampie della teologia fondamentale; anche la mia preparazione scritturistica e patristica sarebbe stata lì meglio valorizzata. In tal modo, però, la decisione, di per sé facile, diventava davvero difficile, ma dopo averci pensato su parecchio decisi di rifiutare. Doveva essere questa l’ultima parola in proposito, ma mi era rimasto dentro un pungolo, che si fece dolorosamente sentire quando nella situazione carica di tensioni della facoltà di Bonn venni a urtare in alcune considerevoli resistenze riguardo a due tesi di dottorato, che rischiavano con ogni probabilità di finire in un fallimento per i due giovani studiosi. Ripensai al dramma della mia abilitazione e vidi in Munster la via indicatami dalla Provvidenza per poter aiutare quei due studiosi. La cosa divenne ancora più convincente, quando mi resi conto che anche in altri casi avrei dovuto aspettarmi a Bonn difficoltà di quel genere, che, invece, non dovevo certo temere nella situazione di Munster. Insieme con l’argomento precedentemente accantonato della mia maggiore vicinanza alla dogmatica, queste ragioni divennero una forza a cui mi inchinai. Naturalmente, ne avevo parlato anche con il cardinal Frings e ancor oggi posso solo essere riconoscente per la sua paterna comprensione e la sua umana generosità.
Nell’estate del 1963 cominciai così il mio insegnamento a Munster, davanti a un vasto uditorio e con una dotazione di personale e materiale, che andava ben oltre quella di cui disponevo a Bonn. L’accoglienza da parte del corpo docente fu oltremodo cordiale, le condizioni non avrebbero potuto essere migliori. Ma devo confessare che mi è comunque rimasta la nostalgia di Bonn, la città sul fiume, della sua serena allegria e del suo dinamismo spirituale. L’anno 1963 segnò però un’altra profonda cesura nella mia vita. Già da gennaio mio fratello aveva notato che nostra madre riusciva sempre di meno ad assumere cibo. A metà agosto il medico ci diede la triste certezza che si trattava di cancro allo stomaco, che ormai procedeva velocemente e inesorabilmente per la sua strada. Fino alla fine di ottobre, benché ridotta a pelle e ossa, continuò a sbrigare le faccende domestiche per mio fratello, finché ebbe uno svenimento in un negozio e da allora non potè più lasciare l’ospedale. Abbiamo rivissuto con lei la stessa esperienza già fatta con nostro padre. La sua bontà era divenuta ancor più pura e trasparente e continuò a brillare anche nelle settimane in cui il dolore andava crescendo. Il giorno dopo la domenica Gaudete, il 16 dicembre 1963, ella chiuse per sempre i suoi occhi, ma la luce della sua bontà è rimasta e per me è divenuta sempre più una concreta dimostrazione della fede da cui lei si era lasciata plasmare. Non saprei indicare una prova della verità della fede più convincente della sincera e schietta umanità che la fede ha fatto maturare nei miei genitori e in molte altre persone che ho potuto incontrare.
MUNSTER E TUBINGA
Quasi subito dopo la dipartita di nostra madre, nel febbraio del 1964, mio fratello fu chiamato a succedere a Theobald Schrems come maestro della cappella del duomo di Ratisbona e, quindi, come direttore dei celeberrimi “Piccoli Cantori della Cattedrale di Ratisbona”. Così l’idillio di Traunstein era davvero finito per sempre e Ratisbona, l’antica città imperiale sul Danubio, che finora era stata ai margini della nostra vita, divenne per noi un comune punto di riferimento; era là che ci incontravamo durante le ferie e là ci sentivamo sempre di più a casa nostra. Ma nel frattempo il Concilio andava avanti, io vivevo diviso tra Munster e Roma. L’interesse per la teologia, che già prima era stato grande, cresceva ancor di più sotto l’impressione delle notizie, spesso cariche di eccitazione, sulle dispute dei Padri. Ogni volta che tornavo da Roma trovavo nella Chiesa e tra i teologi uno stato d’animo sempre più agitato. Sempre più cresceva l’impressione che nella Chiesa non ci fosse nulla di stabile, che tutto può essere oggetto di revisione. Sempre più il Concilio pareva assomigliare a un grosso parlamento ecclesiale, che poteva cambiare tutto e rivoluzionare ogni cosa a modo proprio. Evidentissima era la crescita del risentimento nei confronti di Roma e della Curia, che apparivano come il vero nemico di ogni novità e progresso. Le discussioni conciliari venivano sempre più presentate secondo lo schema partitico tipico del parlamentarismo moderno. Chi veniva informato in questo modo, si vedeva indotto a prendere a sua volta posizione per un partito. In Germania, c’era ancora un sostanziale consenso nei confronti delle forze che sostenevano il rinnovamento, a poco a poco, però, le tensioni e le divisioni che venivano attribuite al Concilio cominciarono a delinearsi anche all’interno del nostro paesaggio ecclesiale. Ma qui era in atto un processo ancora più radicalmente profondo. Se a Roma i vescovi potevano cambiare la Chiesa, anzi, la stessa fede (così almeno pareva), perché solo ai vescovi era lecito farlo? La si poteva cambiare e, al contrario di quello che si era sino ad allora pensato, questa possibilità non pareva più sottratta alla capacità umana di decidere, ma, secondo tutte le apparenze, era posta in essere proprio da essa. Ora, però, si sapeva che il nuovo che i vescovi sostenevano, lo avevano appreso dai teologi; per i credenti si trattava di un fenomeno strano: a Roma i loro vescovi parevano mostrare un volto diverso da quello di casa loro. Dei pastori che fino a quel momento erano ritenuti rigidamente conservatori apparvero improvvisamente come i portavoce del progressismo – ma era farina del loro sacco? La parte che i teologi avevano assunto al Concilio creò tra gli studiosi una nuova consapevolezza: essi cominciarono a sentirsi come i veri rappresentanti della scienza e, proprio per questo, non potevano più apparire sottoposti ai vescovi. Difatti, come avrebbero potuto i vescovi esercitare la loro autorità magisteriale sui teologi, dal momento che derivavano le loro prese di posizione dai pareri degli specialisti e dipendevano dagli indirizzi loro offerti dagli studiosi? A suo tempo, Lutero aveva sostituito l’abito sacerdotale con quello dello studioso, per mostrare che nella Chiesa gli esperti di Sacra Scrittura sono coloro che veramente possono prendere delle decisioni; poi questo rivolgimento era stato in qualche modo attenuato dal fatto che la professione di fede era comunque ritenuta come il criterio ultimo di giudizio. Il Credo era dunque criterio ultimo anche per la scienza. Ma ora nella Chiesa Cattolica, quanto meno a livello della sua opinione pubblica, tutto appariva oggetto di revisione, e persino la professione di fede non pareva più intangibile, ma soggetta alle verifiche degli studiosi. Dietro questa tendenza, poi, dietro il predominio degli specialisti, si percepiva già qualcosa d’altro, l’idea di una sovranità ecclesiale popolare, in cui il popolo stesso stabilisce quel che vuole intendere col termine Chiesa, che anzi appariva ormai chiaramente definita come popolo di Dio. Si annunciava così l’idea di “Chiesa dal basso”, di “Chiesa del popolo”, che poi, soprattutto nel contesto della teologia della liberazione, divenne il fine stesso della riforma.
Se al ritorno in patria dal primo periodo conciliare mi ero sentito ancora sostenuto dal sentimento di gioioso rinnovamento che regnava dovunque, provavo ora una profonda inquietudine di fronte al cambiamento che si era prodotto all’interno del clima ecclesiale e che era ormai sempre più evidente. In una conferenza sul vero e falso rinnovamento della Chiesa, tenuta presso l’università di Munster, cercai di lanciare un primo segnale di allarme, che però non fu quasi per nulla notato. Più energico fu il mio intervento al Katholikentag di Bamberga del 1966, tanto che il cardinale Dópfner si stupì dei “tratti conservatori” che gli era parso di cogliere. Ma nel frattempo si preparava per me un altro cambiamento personale. Come già detto, a Munster avevo trovato un’accoglienza e una stima nel corpo docente della facoltà, un favore da parte del mio uditorio e una sistemazione quali non avrei potuto sperarne di migliori. Cominciai ad amare sempre di più questa bella e nobile città, ma c’era comunque un aspetto negativo: la troppa distanza dalla mia terra natale, la Baviera, a cui ero e sono profondamente e interiormente legato. Avevo nostalgia del sud. La tentazione divenne irresistibile quando l’università di Tubinga, che già nel 1959 mi aveva offerto la cattedra di teologia fondamentale, mi chiamò alla seconda cattedra di dogmatica, da poco istituita. A insistere sulla mia chiamata e a ottenere il consenso degli altri colleghi era stato Hans Kung. Lo avevo conosciuto nel 1957, durante il convegno dei teologi dogmatici a Innsbruck, nel momento in cui avevo appena concluso la mia recensione della sua tesi di dottorato su Karl Barth. Avevo alcune questioni da sollevare circa questo libro, il cui stile teologico non era il mio, ma lo avevo comunque letto con gusto, riconoscendo i meriti dell’autore, di cui mi piacquero la simpatica apertura e la schiettezza. Ne era così nato un buon rapporto personale, anche se già poco tempo dopo la recensione del suo libro ci fu tra noi una controversia piuttosto seria sulla teologia del Concilio. Ma ambedue consideravamo questo come legittima differenza di posizioni teologiche, necessarie per un fecondo avanzamento del pensiero, e non sentivamo affatto compromesse da queste differenze la nostra simpatia personale e la nostra capacità di collaborare. Con il progredire degli eventi teologici ed ecclesiali, sentii che le nostre strade sarebbero andate in direzioni ben più divergenti, ma pensavo che ciò non avrebbe intaccato il nostro consenso di fondo di teologi cattolici. Devo dire che in quel momento mi sentivo più vicino al suo lavoro che a quello di J. B. Metz, che proprio su mio consiglio era stato chiamato alla cattedra di teologia fondamentale di Munster. Trovavo il dialogo con lui estremamente stimolante, ma quando si delineò l’orientamento verso la teologia politica, sentii crescere un contrasto che poteva raggiungere punti fondamentali. Comunque sia, mi decisi ad accettare Tubinga – il sud mi allettava, ma anche la grande storia della teologia in questa università sveva, in cui, oltre tutto, potevo aspettarmi degli interessanti incontri con importanti teologi evangelici. Cominciai le mie lezioni a Tubinga fin dal semestre estivo del 1966, peraltro in uno stato di salute piuttosto precario, dopo le eccessive fatiche del periodo conciliare, della conclusione del Concilio e dell’iniziale pendolarismo tra Munster e Tubinga. Da una parte sentivo il fascino della piccola città sveva, dall’altra, dopo la grandiosità di Munster, ero un po’ deluso di fronte alla non proprio esuberante disponibilità di spazi, in cui tutto era un po’ stretto e sacrificato. La facoltà aveva un corpo docente di altissimo livello, benché incline alle polemiche, e anche a questo io non ero più abituato; devo comunque dire che mi trovai in buoni rapporti con tutti i miei colleghi.
Joseph Ratzinger – La mia vita