PARLA MONSIGNOR GEORG GANSWEIN:
E io pure, testimone immediato di quel passo spettacolare e inaspettato di Benedetto XVI, devo ammettere che per esso mi viene sempre di nuovo in mente il noto e geniale assioma con il quale nel Medioevo Giovanni Duns Scoto giustificò il divino decreto per l’immacolata concezione della Madre di Dio:
“Decuit, potuit, fecit”.
Vale a dire: era cosa conveniente, perché era ragionevole. Dio poteva, perciò la fece. Io applico l’assioma alla decisione delle dimissioni nel modo seguente: era conveniente, perché Benedetto XVI era consapevole che gli veniva meno la forza necessaria per il gravosissimo ufficio. Poteva farlo, perché già da tempo aveva riflettuto a fondo, dal punto di vista teologico, sulla possibilità di papi emeriti per il futuro. Così lo fece.
Le dimissioni epocali del Papa teologo hanno rappresentato un passo in avanti essenzialmente per il fatto che l’undici febbraio 2013, parlando in latino di fronte ai cardinali sorpresi, egli introdusse nella Chiesa cattolica la nuova istituzione del “Papa emerito”, dichiarando che le sue forze non erano più sufficienti “per esercitare in modo adeguato il ministero petrino”. La parola chiave di quella Dichiarazione è munus petrinum, tradotto – come accade il più delle volte – con “ministero petrino”. E tuttavia, munus, in latino, ha una molteplicità di significati: può voler dire servizio, compito, guida o dono, persino prodigio. Prima e dopo le sue dimissioni Benedetto ha inteso e intende il suo compito come partecipazione a un tale “ministero petrino”. Egli ha lasciato il Soglio pontificio e tuttavia, con il passo dell’11 febbraio 2013, non ha affatto abbandonato questo ministero. Egli ha invece integrato l’ufficio personale con una dimensione collegiale e sinodale, quasi un ministero in comune, come se con questo volesse ribadire ancora una volta l’invito contenuto in quel motto che l’allora Joseph Ratzinger si diede quale arcivescovo di Monaco e Frisinga e che poi ha naturalmente mantenuto quale vescovo di Roma: “cooperatores veritatis”, che significa appunto “cooperatori della verità”. Infatti non è un singolare, ma un plurale, tratto dalla Terza Lettera di Giovanni, nella quale al versetto 8 è scritto: “Noi dobbiamo accogliere queste persone per diventare cooperatori della verità”.
Dall’elezione del suo successore Francesco il 13 marzo 2013 non vi sono dunque due papi, ma de facto un ministero allargato – con un membro attivo e un membro contemplativo. Per questo Benedetto XVI non ha rinunciato né al suo nome, né alla talare bianca. Per questo l’appellativo corretto con il quale rivolgerglisi ancora oggi è “Santità”; e per questo, inoltre, egli non si è ritirato in un monastero isolato, ma all’interno del Vaticano – come se avesse fatto solo un passo di lato per fare spazio al suo successore e a una nuova tappa nella storia del papato che egli, con quel passo, ha arricchito con la “centrale” della sua preghiera e della sua compassione posta nei Giardini vaticani.
È stato “il passo meno atteso nel cattolicesimo contemporaneo”, scrive Regoli, e tuttavia una possibilità sulla quale il cardinale Ratzinger aveva riflettuto pubblicamente già il 10 agosto 1978 a Monaco di Baviera in un’omelia in occasione della morte di Paolo VI. Trentacinque anni dopo egli non ha abbandonato l’ufficio di Pietro – cosa che gli sarebbe stata del tutto impossibile a seguito della sua accettazione irrevocabile dell’ufficio nell’aprile 2005. Con un atto di straordinaria audacia egli ha invece rinnovato quest’ufficio (anche contro l’opinione di consiglieri ben intenzionati e senza dubbio competenti) e con un ultimo sforzo lo ha potenziato (come spero). Questo certo lo potrà dimostrare unicamente la storia. Ma nella storia della Chiesa resterà che nell’anno 2013 il celebre Teologo sul Soglio di Pietro è diventato il primo “Papa emeritus” della storia. Da allora il suo ruolo – mi permetto ripeterlo ancora una volta – è del tutto diverso da quello, ad esempio, del santo papa Celestino V, che dopo le sue dimissioni nel 1294 avrebbe voluto ritornare eremita, divenendo invece prigioniero del suo successore Bonifacio VIII (al quale oggi dobbiamo nella Chiesa l’istituzione degli anni giubilari). Un passo come quello compiuto da Benedetto XVI fino ad oggi non c’era appunto mai stato. Per questo non è sorprendente che da taluni sia stato percepito come rivoluzionario, o al contrario come assolutamente conforme al Vangelo; mentre altri ancora vedono in questo modo il papato secolarizzato come mai prima, e con ciò più collegiale e funzionale o anche semplicemente più umano e meno sacrale. E altri ancora sono dell’opinione che Benedetto XVI, con questo passo, abbia quasi – parlando in termini teologici e storico-critici – demitizzato il papato.
Nella sua panoramica del pontificato, Regoli espone tutto questo chiaramente come mai nessuno prima. La parte forse più commovente della lettura è stata per me il passo dove, in una lunga citazione, egli ricorda l’ultima udienza generale di Benedetto XVI il ventisette febbraio 2013 quando, sotto un indimenticabile cielo limpido e terso, il Papa che di lì a poco si sarebbe dimesso riassunse il suo pontificato così:
“E’ stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate e il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare”.
Devo ammettere che, a rileggere queste parole, quasi potrebbero ancora venirmi le lacrime agli occhi, e tanto più per avere io visto di persona e da vicino quanto incondizionata, per sé e per il suo ministero, sia stata l’adesione di Papa Benedetto alle parole di san Benedetto, per cui “nulla è da anteporre all’amore di Cristo”, nihil amori Christi praeponere, come è detto nella regola tramandataci da Papa Gregorio Magno. Ne fui allora testimone, ma tuttora rimango affascinato dalla precisione di quell’ultima analisi in Piazza San Pietro che suonava così poetica, ma era nient’altro che profetica. Infatti sono parole che oggi anche Papa Francesco immediatamente potrebbe sottoscrivere e sottoscriverebbe senz’altro. Non ai papi ma a Cristo, al Signore stesso e a nessun altro appartiene la navicella di Pietro frustata dalle onde del mare in tempesta, quando sempre di nuovo temiamo che il Signore dorma e che non gli importi delle nostre necessità, mentre gli basta una sola parola per far cessare ogni tempesta; quando invece a farci cadere di continuo nel panico, più che le alte onde e l’ululato del vento, sono la nostra incredulità, la nostra poca fede e la nostra impazienza.
Nella sua panoramica del pontificato, Regoli espone tutto questo chiaramente come mai nessuno prima. La parte forse più commovente della lettura è stata per me il passo dove, in una lunga citazione, egli ricorda l’ultima udienza generale di Benedetto XVI il ventisette febbraio 2013 quando, sotto un indimenticabile cielo limpido e terso, il Papa che di lì a poco si sarebbe dimesso riassunse il suo pontificato così:
“E’ stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate e il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare”.
Devo ammettere che, a rileggere queste parole, quasi potrebbero ancora venirmi le lacrime agli occhi, e tanto più per avere io visto di persona e da vicino quanto incondizionata, per sé e per il suo ministero, sia stata l’adesione di Papa Benedetto alle parole di san Benedetto, per cui “nulla è da anteporre all’amore di Cristo”, nihil amori Christi praeponere, come è detto nella regola tramandataci da Papa Gregorio Magno. Ne fui allora testimone, ma tuttora rimango affascinato dalla precisione di quell’ultima analisi in Piazza San Pietro che suonava così poetica, ma era nient’altro che profetica. Infatti sono parole che oggi anche Papa Francesco immediatamente potrebbe sottoscrivere e sottoscriverebbe senz’altro. Non ai papi ma a Cristo, al Signore stesso e a nessun altro appartiene la navicella di Pietro frustata dalle onde del mare in tempesta, quando sempre di nuovo temiamo che il Signore dorma e che non gli importi delle nostre necessità, mentre gli basta una sola parola per far cessare ogni tempesta; quando invece a farci cadere di continuo nel panico, più che le alte onde e l’ululato del vento, sono la nostra incredulità, la nostra poca fede e la nostra impazienza.
Così questo libro getta ancora una volta uno sguardo consolante sulla pacifica imperturbabilità e serenità di Benedetto XVI, al timone della barca di Pietro negli anni drammatici 2005-2013.
Nello stesso tempo tuttavia, con questo illuminante resoconto, ora anche lo stesso don Regoli prende parte a quel munus Petri di cui ho parlato. Come prima di lui Peter Seewald e altri, anche Roberto Regoli – in qualità di sacerdote, professore e studioso – si immette così in quel ministero petrino allargato intorno ai successori dell’apostolo Pietro; e per questo oggi di cuore lo ringraziamo.
Mons. Georg Gänswein, Prefetto della Casa Pontificia
20 maggio 2016